PAULO COELHO
Un bambino può insegnare sempre tre cose ad un adulto: a essere contento senza motivo, a essere sempre occupato con qualche cosa, e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera.
Storia
di
Luna
Le foglie cadono lente.
Come ad una ad una da un contagocce.
Scompigliate come i capelli al vento, si uniscono promiscue.
Danzano lievi e sembra quasi sentirsi la dolce melodia diffusa che si leva dall’asfalto, come a formare una nuvola. Sfidano la forza di gravità e si elevano al cielo.
Continuano a cadere lente queste foglie, che inneggiano all’arrivo di una nuova stagione.
Un’altra estate è finita. E l’inverno arriverà. Ad annunciarlo malinconico è il continuo fruscio del vento.
I rami secchi sottili e fragili, tintinnano sui vetri, ritmando un nuovo sound.
Sono degli occhi nero catrame che assistono dietro quella finestra opaca a questa nuova magia della natura.
Sono gli occhi profondi di Luna.
Polverosi come le strade su cui continuano a cadere le foglie.
Luna ha undici anni. E i suoi occhi fragili hanno visto solo undici primavere.
Ma sono abbastanza per lei.
Quegli occhi stanchi hanno già visto tanto; o troppo, o ancora troppo poco.
Luna vive lì da sempre. Ha tanti amici. Studia, gioca, ama leggere e immaginare mondi fantastici.
Adora le storie di principesse. Tutte. Tutte quante.
Rinchiuse nelle torri, prede di mostruose creature, rapite da streghe paurose, sequestrate da gnomi malefici. Le ama tutte. Perché come loro, sa che prima o poi sarà salvata.
Ma salvata da cosa?
Luna ha dei fantastici compagni di scuola e di gioco, premurose maestre; ha anche Giulia, la sua amichetta del cuore che divide con Alessia, la sorellina più piccola di Giulia. Luna vuole essere salvata. Non sa bene da chi, o forse non le importa, ma sa da cosa.
Da quel vuoto che avanza quando il Natale è alle porte. Da quell’ansia che le aggroviglia lo stomaco in prossimità del suo compleanno, da quell’angoscia che le irrompe nel petto con l’avanzare dell’estate.
Luna vuole essere salvata da tutto questo. O meglio da lei stessa in tutto questo.
Luna non è sola, ma si sente sola. Luna è orfana.
Lo è anche Giulia. Lo è anche Alessia.
Ma proprio ieri le ha viste andar via.
C’erano due occhi neri come la pece, ruvidi come il carbone, pesanti come dinamite dietro quella finestra.
Sullo sfondo di quel cielo autunnale, tra le foglie che ballavano tra gli alberi, c’erano Giulia e Alessia. Ma non erano sole. Un lungo cappotto bianco e una giacca chiara in lontananza. I colori si perdevano ad ogni passo, ma le mani si intrecciavano tutte tra di loro e benché lontane, lei, Luna, le vedeva.
Poteva scorgere gli infinitesimali movimenti delle falangi che si stringevano.
Le sembrava di sentirne il calore, quasi il sudore, la presa forte e sicura, decisa; come decise erano state le scelte di Carla e Paolo che, dopo un paio di settimane d’estate insieme alle piccole, e tanti altri fine settimana a seguire, avevano scelto di poter stringere per sempre quelle mani, quelle di Giulia e Alessia.
Luna era lì durante il loro incedere lento verso l’auto, una berlina grigio scuro, la stessa che in un attimo vide andar via. Mentre lei rinchiusa nella sua torre continuava a sperare di esser salvata.
Un sorriso irruppe a spezzare quella scena dolorosa, una delle tante che in undici anni avevano ingoiato quegli occhioni grandi. Quel sorriso era il suo. Proprio il suo.
Il tintinnio dei rami sui vetri, e quel vento crescente che lo generava faceva da sottofondo al suo valzer delle emozioni che iniziò ad accompagnare accennando dei passi.
Il copriletto in un balzo divenne mantello.
Le bacchette dello xilofono si fecero scettro e Luna iniziò a danzare, a danzare sempre più forte fino a capitolare sul letto, dove si abbandonò ad un morbido abbraccio col suo cavaliere, quel cuscino la cui federa ingrigita, a righe bianche e blu, iniziò a tingersi di lacrime.
Luna piangeva e rideva. Sperava e soffriva. Gridava di quelle urla sorde dell’anima che sfidano l’ululare del vento, sempre più copioso sui vetri. Luna era lì, mentre un’altra notte scendeva e in attesa di potersi perdere in un vero abbraccio, si perse tra le braccia di Morfeo.
Oggi Luna ha cambiato città da poco.
Adorava leggere e si è iscritta a Lettere Antiche.
Sta preparando Greco e intanto continua ad allenarsi. Fa ginnastica ritmica. Il mese prossimo ha gli esami per diventare insegnante. È dura. Ma lei le sfide le conosce.
Ne conosce l’odore della paura. Il suono della sconfitta. Ne conosce anche il sapore.
Lei la sua sfida l’ha vinta.
Da quella torre è uscita, grazie a Chiara e Marco che un giorno freddo di marzo le scaldarono il cuore e le strinsero quelle manine gelide e incredule.
Come Rea, spesso raffigurata nella mitologia trainata due leoni, così Luna, dalla titanica forza interiore, trainata da suoi due leoni, Chiara e Marco, scopre cosa vuol dire famiglia.
Personificazione delle forze della natura, dea della terra e degli animali, Rea dea dell’abbondanza, dea madre di tutti gli dei, sembra ispirare una delle principesse che facevano compagnia a Luna, durante l’infanzia. Luna sembra prendere a prestito proprio da Rea la sua instancabile forza vitale, quella stessa che la dea tirò fuori sperando fino all’ultimo di salvare suo figlio, come racconta il mito.
Una storia, quella di Luna, di straordinaria follia, quella stessa che spinge una coppia
a trovare la coraggiosa incoscienza per meritarsi un figlio. Un percorso non facile, fatto
di illusioni e delusioni, di angosce ed entusiasmi, di lacrime e di chi non smette
di asciugartele. Tante le coppie, giovani e meno giovani, che hanno intrapreso questa strada tortuosa, quella della genitorialità mancata, che finalmente riesce a diventare ritrovata. Una come tante, la storia di Chiara e Marco che, instancabili, scalano la torre per salvare Luna dai suoi fantasmi, per poi scoprire di essere stati loro ad essere salvati.
io sono Rea
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