JAROSŁAW IWASZKIEWICZ
Il mio mondo è il mio mondo non posso aprirlo davanti a voi. E se anche descrivessi le statue dei dodici mesi celate nel fitto verde, ognuno di voi vedrebbe un verde diverso una statua diversa e non questo verde.

Storia

di

Filippo

Ci siamo! Il giorno è arrivato. È un primo pomeriggio assolato, ma fresco e la mamma e la nonna di Filippo si stanno preparando. Filippo e sua sorella, invece sono pronti da un pezzo, lui siede, sguardo sfuggente, sul divano in attesa di varcare l’uscio di casa, sua sorella Lia, invece, bandana in testa, aspetta con pazienza che il papà tiri fuori la macchina dal garage.
La mamma si rivolge a Filippo con voce tranquilla e gli chiede se è pronto, dopo un po’ gli chiede se vuole un cappellino per il sole, e solo prima di uscire gli porge quello bianco, accompagnandolo con un sorriso. Tutto con i tempi giusti, quelli di Filippo: non troppo veloci, per non sovraccaricarlo, e poterli permettere di fare una cosa alla volta. La gita può avere inizio e i cinque percorrono una mezz’oretta in auto prima di arrivare ad una delle mete preferite da Stefania, la mamma di Filippo.
Sono in anticipo e il parcheggio si trova facilmente.
Filippo si appresta a passeggiare con la sua andatura ciondolante per le stradine di Rocca San Felice, uno dei borghi più belli d’Irpinia, allestito con fascino medievale, nella penultima settimana di agosto.
La sua mamma adora da sempre queste feste rievocative, mix equilibrato di cultura storia e tradizioni. Nei primi due anni di vita di Filippo, lei e il padre vi erano tornati ogni fine agosto, ma poi dopo il terzo anno, i suoni, i colori sfavillanti dei drappi e degli stendardi allestiti in ogni dove, non erano più indicati per la grande sensibilità che Filippo aveva iniziato a palesare. Sin da piccolo alla vista di colori molto forti e sgargianti si mostrava nervoso ed agitato, e i suoni delle percussioni, specie quelli improvvisi ed imprevisti, lo disturbavano non poco. La diagnosi, come una sentenza, era arrivata quando Filippo aveva due anni e mezzo, il giorno di santa Rita, Stefania lo ricordava bene.
Si era preparata leggendo molti articoli, perché alcuni segni e segnali li aveva colti anche lei. Filippo era bellissimo nel completino jeans e camiciola bianca, ma quei movimenti ripetuti, le braccia che si muovevano, seppur leggiadramente, a farfalla la avevano spaventata. Anche la pediatra era sembrata preoccupata da quei movimenti ripetuti, non si era pronunciata, e si era limitata a consigliarle il neuropsichiatra infantile, che avrebbe fatto indagini e dato un responso. Stefania aveva contenuto la sua ansia e quella dei suoi familiari, su tanti fronti, dispensando informazioni, ascoltando laconicamente le preoccupazioni dei nonni e delle prozie, non cautelandosi dai racconti sgraziati delle amiche, che raccontavano di sventure altrui con superficialità e scarsa tempestività.
Il suo terrore ed impotenza lei li viveva di sera, quando si documentava con fare certosino e maniacale sui blog, sui siti scientifici, fino a farsi bruciare gli occhi. Quando arrivò la diagnosi dell’equipe medica lei ormai sapeva tanto, più di quanto avrebbe dovuto, più di quanto avrebbe voluto. Il medico non lasciò dubbi: sindrome dello spettro autistico. Ogni singola parola che egli pronunciò Stefania ne conosceva e ne comprendeva il significato, complice mesi di studio indefesso. In tre quarti d’ora di auto, i più silenziosi che Gianluca, marito e padre sorpreso, ricordi, Stefania non proferì parola, sul retro appoggiata, con i suoi capelli biondo cenere avvolti in uno chignon semplice ed elegante, al sediolino bimbi di Filippo che riposava. Con il passare delle settimane consapevolezza e lacrime fecero la loro comparsa e divennero sempre più pregnanti; con il passare dei mesi accanto alle paure crebbero le risorse di quei due genitori, spiazzati dall’angoscia per quanto era accaduto, e dall’incomprensione del perché fosse successo proprio a loro. La paura cedette il passo all’azione e poco dopo la casa fu bonificata. Sulle mura di ogni stanza che Filippo frequentava comparvero colori tenui e tranquillizzanti. Stefania tolse ogni soprammobile e dalle mensole furono fatti sparire tre anni di peluche. Ogni lampadario e luce al neon fu sostituito da abat jour e luci soffuse; a Lia fu chiesto di giocare con la play station nei momenti in cui Filippo non fosse in casa. Per anni un carillon, regalo della nonna Lella, fu la colonna sonora dei pomeriggi della famiglia al rientro di Filippo dal centro terapico. Alcuni odori tra i vicoli della piccola Assisi dell’Irpinia richiamarono alla memoria di Stefania, quei profumi della cucina in cui Filippo trascorse e trascorre tutt’ora interi pomeriggi tra terapie fisiche, terapie occupazionali e tempo libero. Le stradine di Rocca San Felice erano invase dall’odore intenso dei peperoni quagliettani, i cosiddetti papazzi, e dai fagioli; ma ciò che rimandò indietro il cuore e i ricordi di mamma Stefania furono gli aromi delle zuppe di farro, legumi ed orzo saraceno, una delle specialità della cuoca del centro diurno che frequentava Filippo. Chissà se durante quella gita Filippo ricordava; chissà se Filippo nel suo guscio apparentemente profondo e inarrivabile riconosceva quei profumi e fosse capace di associarli nella sua mente ai tanti momenti di allenamento e trattamenti, trascorsi nel centro di terapia, come stava facendo la sua mamma.
Chissà se c’era un mondo in cui questi bambini vedono e vivono sentimenti e sensazioni che a noi adulti, cosiddetti sani, sono preclusi e sbarrati. Mortalità e straordinarietà, due immagini della stessa vita nei bambini speciali come Filippo, nelle famiglie trasformate come quella di Stefania e Gianluca, nelle vite di chi viene in contatto con loro e le loro cicatrici, che con gli anni restano lì in tutta la loro evidenza e che, inspiegabilmente per noi adulti non colpiti finiscono con diventare bellezza e ammirazione.
Le lacrime si trasformano in forza nelle braccia che aiutano nella deambulazione; la paura si muta in istanti presenti vissuti intensamente, come se ognuno di essi fosse l’ultimo, e per questo i più preziosi di sempre. Lo sconforto e la solitudine cedono il passo alle piccole grandi dosi di ottimismo che fanno vivere ogni giorno come un momento di gratitudine, come se non ci fosse un domani. La progettualità, una delle cicatrici più sofferte, cede il posto ad altri voleri, in un disegno più grande dell’individualità e del personale universo di ognuno.
Il centro, in questo, ha il suo piccolo merito, aver concesso uno spazio protetto ai bambini e alle bambine che in quelle stanze diventano giovani uomini e donne, e uno spazio confidenziale dove i familiari condividono occasioni per scoprire e costruire nuove risorse, quelle indispensabili a mantenere i legami in famiglia, e ad amare i loro figli nella maniera in cui essi possono decifrare. Ed è stato anche grazie al supporto degli anni di terapia che Filippo oggi riesce a camminare tra le strade di Rocca San felice, nel giorno della XXIV festa medievale, nelle prime ore della festa, quando le bancherelle si sono appena accaparrate i loro spazi, gli stand delle bibite iniziano ad offrire i primi assaggi e anche i figuranti iniziano a scalpellare, coniare, sferruzzare, con la riproposizione dei mestieri e degli utensili antichi. In questa parata di fragranze, bellezze architettoniche, scorci paesaggistici, Filippo si blocca, arresta il suo passo incurante che la sorella sia avanti, inconsapevole che sua madre sia accanto a lui, fisso con lo sguardo sullo scintillio di luce di una lampada ad olio di una taverna; e di lì non si muove più.
Lo capisce e lo sa Stefania che ha visto più volte il succedersi di azioni bloccate inaspettatamente e improvvisamente senza spiegazioni, da parte di quel figlio così misterioso ed amato; ma quell’immagine del suo bellissimo Filippo che mira una lampada antica è così poetica e surreale che anche lei si ferma volontariamente estasiata.
La gita a Rocca San Felice è finita, non ha rispettato l’itinerario previsto e programmato, ma del resto come Filippo ha ben insegnato a questi genitori, senza intervalli, la vita è caducità delle cose, dei luoghi, delle persone ed anche dei programmi che gli uomini ingenuamente si fanno senza troppa coscienza di come l’universo proceda.
Filippo come Giapeto, il titano più antico tra gli antenati del genere umano, sa che provare nostalgia di cosa sarebbe potuto essere e che non è stato, è poca cosa di fronte al mistero e all’infinito, e che l’uomo con la sua intelligenza e il suo desiderio di governare, riesce appena ad accarezzare.
Se gli eventi fossero potuti andare in un modo diverso ci sarebbero andati e nei luoghi della mente e del cuore la sofferenza può generare bellezza.

io sono Giapeto