PINO DANIELE
Passa ‘o tiempo e che fa, tutto cresce e se ne va, passa ‘o tiempo e nun vuò bene cchiù. Voglio ‘o sole pe’ m’asciuttà voglio n’ora pe’ m’arricurdà.

Storia

di

Remo

Un’aria torrida entrava dalla finestra, interrotta da improvvise e inaspettate folate di quel venticello debole dello scirocco. Le forbici cromate, il pettine a punta, le lamette ancora intatte e quel pennellone di cinghiale immancabilmente eretto sul bordo del lavandino, tutti in fila per dare inizio al consueto rituale mattutino.
Con la precisione e la maestria di un barbiere di altri tempi, Remo impugna le forbici pronte ad affilare i suoi folti baffi carbone che, ormai da cinquant’anni, incorniciano quel fascinoso sorriso, ormai velato dopo altrettanti anni, dal fumo evanescente di quei toscani immancabilmente nascosti dietro la pochette.
Ormai li aveva un po’ trascurati, i suoi amati toscani, dopo l’ultimo controllo medico dal cardiologo davanti al quale con un sorriso esordì: dottò li vuoi allungare i miei giorni; ma io ho l’obbligo di allargarli.
Allargare le giornate. Questo era stato sempre il mantra di Remo. Settantasei anni suonati e un’irrinunciabile voglia di vivere. Amante di De Crescenzo, da buon partenopeo, aveva fatto suoi gli insegnamenti del grande maestro. Epicureo o stoico? Dichiaratamente, irrimediabilmente, convintamente epicureo. La vita lui la voleva decisamente allargare. Diluirla, perché i ricordi dei lunghi baci sul Ponte Vecchio quando da giovanissimo, militare a Firenze, si trastullava tra una donna e l’altra, in attesa di far ritorno per il congedo dalla sua Elena, non sbiadissero. Fluidificarla, perché il pensiero volato via alle spensierate estati e alle notti brave con gli amici di gioventù non sembrassero un ricordo lontano. Remo aveva vissuto così tutta una vita, mosso sempre da un acuto senso della bellezza. Non si trattava solo di vano narcisismo, ma di un più profondo senso del bello che sin da piccolo aveva maturato dentro di sé, quasi a contrastare, creandosi un mondo incantato e sognante, i primi anni del post guerra, duri ma felici, in cui non si aveva niente, ma quel niente che bastava a vivere e a sentirsi più fortunati, di tanti, che i propri padri non li avevano visti tornare. I suoi occhi non potevano sopportare le brutture, le storture, le ingiustizie. Da buon sagittario, vigoroso, profetico, dinamico, Remo, aveva un mondo interiore ricco e stimolante, costruito sulle note delle malinconiche canzoni d’oltralpe, sulle immagini d’oltre oceano, il tutto misto agli odori, i profumi, i gusti di quella napoletanità che prima di un luogo di origine è un modo di essere.
Quel modo di essere che lo portava a raccontare infinite volte la stessa storia, come nell’episodio del cavalluccio in Così parlò Bellavista; quel modo di essere che lo portava ad esultare, senza mai trascendere, composto ed elegante com’era, ad ogni goal del Napoli; quella calcistica, fu la sua unica fede. Apparentemente eretico, forse agnostico, in realtà aveva sempre creduto nell’al di là, ma, da buon illuminista non lo diede mai a vedere, e la sua passione per le donne d’adulto, per i giocattoli, tutti quelli che non poté mai avere, da piccolo, rafforzarono il suo convincimento per l’amore verso le cose terrene. Sosteneva che amare e innamorarsi, giorno dopo giorno, della terrenità era l’unico modo per avvicinarsi al divino. Appassionato sin da giovane di meccanica aveva fatto i suoi studi al tecnico commerciale; e di lì a poco fu pronto per partire con la sua vuota valigia di cartone, come spesso succedeva al tempo, per il Nord, come si soleva dire. Scaltro, quel che basta, trovò subito lavoro in una multinazionale tedesca che commercializzava utensili, e di lì ben presto, l’odore d’officina delle più prestigiose aziende metalmeccaniche divenne il suo marchio di fabbrica.
L’odore persistente delle lavorazioni meccaniche, miste al fumo del toscano classico, annunciavano profeticamente il suo rientro a casa, dove, ad aspettarlo c’era lei, Elena la sua compagna di sempre. Con lei, le sue due splendide figlie, che per testimoniare la sua modernità non volle chiamare come la madre, rinunciando pionieristicamente a quella famosa e consueta tradizione della cosiddetta supponta. Remo viveva della sua vita vissuta. Le figlie lo andavano a trovare quasi ogni settimana, ma senza le nipoti quasi a volersi ritagliare un momento speciale per sentirsi ancora bambine. Amava la musica tradizionale napoletana, e continuava ad avere sempre un aspetto curato, Remo. Un dandy inglese per certi versi. Fissato con le cravatte dai colori sgargianti, a cui, negli ultimi tempi aveva preferito fantasie esotiche. Una volta al mese era solito uscire a cena fuori, a volte solo, a volte convinceva qualche amico o amica della casa di riposo, dove ormai da anni risiedeva.
Oggi Remo, è ancora lì. Adora fare lunghe e lente passeggiate nel bosco della casa di riposo; un giardino dove ha trovato un angolo per curare il suo amato basilico, irrinunciabile, tocco su quello spaghettone allo scarpariello che spesso si concede di preparare di persona per tutti. Come Ceo, titano della saggezza, Remo, conserva gelosamente ogni singolo ricordo di quei settantanove anni, più di cinquanta vissuti accanto alla sua Elena. Non fu l’unica forse con cui si accostò, pur rimanendo l’unica donna della sua vita, a cui dedicò, giorno dopo giorno, quelle frasi celebri prese a prestito dalle commedie di Eduardo, con le quali sapeva di riuscire a rubare un sorriso forzatamente trattenuto di Elena, che pur di non dargli soddisfazione, lo apostrofava con improbabili epiteti, senza mai scomporsi. Sei la reginetta della casa, le diceva, facendola sbottare a prima mattina, intenta lei, a dare inizio a tutti quei gesti quotidiani che la vedevano sempre su e giù per la casa, operosa e mai affannata. Remo, intanto, tra le faccende domestiche della sua Elena, si rinchiudeva ne suo mondo fatto di musiche, ricordi, studi; amava la fisica, la matematica, in generale tutte le scienze, ma era irrimediabilmente conquistato dalla letteratura, e dalla poesia; poesie che conosceva a memoria, retaggio della scuola dai libri neri, le penne rosse e i grembiuli con i fiocchi, in cui era cresciuto, spesso inginocchiato dietro la lavagna sui ceci, come si soleva un tempo. La sua saggezza era tutta lì, nei versi dell’Infinito, quel e il naufragar mi è dolce in questo mare, a cui sembra essersi ispirato in ogni attimo della sua vita.
Nelle terzine di dantesca memoria, nei sonetti e nelle formule di fisica, nelle note di Chopin, nei dialoghi incalzanti di compare Turiddu e compare Alfio in Cavalleria rusticana. La sua saggezza era tutta lì, nell’instancabile curiosità con cui silente e spesso taciturno aveva guardato sempre il mondo senza giudicarlo, con quel distacco tipico di chi osserva, spesso smarrito, davanti alle storture, ed estasiato di fronte alle bellezze. Remo ora era lì. Dopo Elena aveva preferito un luogo nuovo dove vivere, cercando di illudersi e illudendosi di trovare un posto in cui tutto non gliela ricordasse ogni minuto.
È un nuovo giorno per Remo; oggi le sue nipotine, lo andranno a trovare; si fa bello, ci tiene a mostrarsi in perfetta forma. Sarà una visita breve, ma intensa; il tempo di un gelato, in giardino, di un saluto che spera sempre possa essere non l’ultimo.

io sono Ceo