ROMANO BATTAGLIALa notte non è mai così nera come prima dell’alba, ma poi l’alba sorge sempre a cancellare il buio della notte.

Storia

di

Vincenzo

Il cielo è ancora coperto. Il sole pigro non ha ancora dato cenno di svegliarsi, in questa giornata di metà estate.I barchini sono già pronti per uscire, ma la Marina Grande è ancora vuota.
Si aggirano solo i vecchi lupi di mare e qualche badante che si gode il suo caffè di buon mattino prima che un altro giorni inizi.
Vincenzo li conosce bene quei barchini. Da piccolo, ancora assonnato, il padre lo portava all’alba lì, alla Marina Grande, a pescare. A lui toccava infilare i vermetti all’amo come esca, e lo faceva sbuffando, insonnolito e affamato. Ora era lì di nuovo dopo quarant’anni. Ma tutto gli sembrava diverso.Ogni singolo istante. In quel lieve vento di scirocco, delle prime ore del giorno c’era il senso di un mattino che ha davvero l’ora in bocca. La giornata sarebbe stata lunga e Vincenzo lo sapeva bene.Vincenzo lo sa.Ma è felice. Felice di essere tornato nei suoi luoghi, nella sua terra, tra la sua gente.Un ritorno alle origini che per lui risuona come un segnale di nuova vita.Sa che è la sua possibilità, la sua volta buona. E ha voluto riprendere proprio da lì, da quella Marina Grande, dalla sua Isola, famosa in tutto il mondo per i Faraglioni, che d’estate si riempie di quel caos frenetico che sgorga dal porto, nave dopo nave, attracco dopo attracco.Grida a squarciagola Vincenzo con quel tipico fare pittoresco dei marinai partenopei che gesticolando, racimolano attorno a sé i turisti.La meta è sempre la stessa. Quella Grotta Azzurra dal blu intenso, quasi accecante, in cui, da piccolo con gli amici di infanzia, amava nascondersi facendo a gara a chi urlava più forte. E in men che non si dica inizia il rituale di sempre, appreso dal padre, e che il padre aveva appreso dal nonno a sua volta.Quella lenta marcia verso la grotta, di quei barchini che uno dopo l’altro si incamminano con i propri Caronte, ondeggiando con il ritmato e languido sound dei remi che, l’uno dopo l’altro, accarezzano le onde.Sembra quasi che non le tocchino affatto, e a un tratto l’ingresso: un movimento veloce e deciso per entrare nell’anfratto, quasi violandolo.E poi in un attimo tutti dentro, quattro, cinque persone alla volta non di più, e l’incedere si fa di nuovo lento, affannoso, affaticato, quasi a voler recuperare fiato.Gli occhi stranieri disorientati da tanta bellezza e storditi dalle voci lamentose dei marinai che accennano le antiche canzoni dei pescatori.La magia dura poco il tempo di chiedersi se tutto questo sia reale e poi di nuovo finalmente fuori, il sole in faccia e lo scroscio delle onde. Finalmente si respira di nuovo.Vincenzo era tornato lì, alla Marina Grande, alla Grotta Azzurra, quell’estate, il periodo estivo era il migliore per mettere insieme qualche soldo in più.E così era tornato alla sua gente.Ormai era un anno, poco più, che ne era fuori, ma il tunnel lui lo conosceva bene.Grigio e cupo. Plumbeo come il cielo d’inverno. Profondo come le acque a largo della sua isola. Ardito come le altezze da cui aveva osservato la sua Capri, dal Monte Solaro.Arido come i tratti più impervi della sua amata Anacapri.Quel tunnel era durato tanto; quasi vent’anni, tra cadute e ricadute. Ma non erano come quelle che ricordava di aver fatto in piazzetta giocando a pallone da bambino.Ormai ne era uscito, ma in quei vent’anni, buio e luce, adrenalina e apatia, sorrisi e lacrime si erano alternati vorticosamente a ritmi regolari.Un giorno le cose cambiarono.La porta del carcere si era chiusa dietro di sé, dopo l’ennesimo errore, e ad aspettarlo c’era lui Claudio, che aveva conosciuto nel centro di recupero. La sua reazione, timore misto a sorpresa, si disperse in un secondo appena Claudio avanzò e gli tese un saluto a mo’ di rapper. Così si erano sempre salutati.È quel gesto conosciuto, quasi intimo, lo rassicurò.Claudio aveva bisogno di una mano per il nuovo servizio di trasporto pasti all’ospedale che di lì a poco sarebbe partito, e aveva pensato a lui. Proprio a lui.Vincenzo, seppur timoroso non voleva deluderlo e sapeva che Claudio sarebbe stato il suo angelo. Ruvido a tratti, di poche parole, ma concreto.Di lì Vincenzo colse il senso di quell’incontro. Era la sua opportunità. La sua volta buona. Di lì iniziò l’attività di trasporto pasti all’ospedale. Era uno di quei pochi che ce la fanno. Tanti ne aveva lasciati dietro di sé.Dietro di sé nei boschetti, invasi di siringhe. Dietro di sé nei vicoli di notte. Dietro di sé tra le sbarre, dopo l’ennesimo errore. Dietro di sé nel centro che aveva più volte frequentato, e più volte lasciato.Ma ora era lui a stare avanti. Il primo a presentarsi a lavoro.Il primo a presentarsi al centro. Il primo tra i suoi amati barchini. Il primo ad entrare e il primo ad uscire da quella grotta cristallina, proprio a voler rivivere ripetutamente per un attimo quell’oppressione del tunnel vissuto per anni, che con la sua sola forza era stato capace di lasciarsi alle spalle.
Era bastata un’opportunità. Il sentire di poter ancora sperare in una nuova vita. L’illusione di poter superare la delusione. La certezza di dover contrastare l’irrequietezza quella dell’animo, quella che confonde, quella che scava, come l’onda nella roccia.Anche Vincenzo, conosceva l’impeto di quell’onda fluida, ma al contrario delle fanciulle greche che si immergevano nell’acque di Oceano, prima delle nozze per rubare la sua potenza generatrice, lui nei fluidi aveva trovato solo vuoto e perdita.L’onda, che sin dalla tenera età gli era stata benevola, Vincenzo l’aveva conosciuta anche nel suo lato più oscuro e periglioso, e per due decenni lo aveva dominato, insinuandosi dapprima emotivamente e psicologicamente ed infine anche fisicamente, in cambio di dosi e pezzi di vita. Con il suo gruppo al centro aveva allenato disciplina e fisico a reggere ai colpi dell’onda distruttrice e non era stato facile. C’erano ore in cui frasi anche non dirette a lui o osservazioni banali gli scatenavano reazioni di rabbia incontrollata e dannose.Con le ore trascorse insieme all’equipe multidisciplinare, i protocolli, il percorso dei dodici passi, gli esercizi fisici e cognitivi, gli individui che incontrava tornarono ad essere persone, a cui non doveva rubare i soldi per racimolare una dose di morte, a cui non doveva mentire sul perché le sue pupille fossero dilatate e parlasse vorticosamente, non doveva giustificare tutti i comportamenti e i suoi sbalzi di umore. E con il tempo e l’impegno il futuro prese la forma dell’acqua vivificatrice. Come Oceano, Vincenzo, fluido come le acque, sembrava possedere un’inesauribile potenza generatrice. Come Oceano però non era un dio fluviale comune, perché il suo non era un fiume comune; quando tutto aveva avuto già origine da lui, esso continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso, in un circolo ininterrotto. I fiumi, i torrenti e le sorgenti, anzi il mare stesso, continuavano a scaturire dal suo corso vasto e potente. E vasto e potente, poteva essere ancora il suo futuro, una volta che un’opportunità lui l’aveva avuta. Vincenzo lo sapeva bene. Vincenzo lo sa. Lui nella sua isola ne ha visti di mari agitati e tempestosi, ma è testimone anche che la quiete torna sempre e che il vero marinaio si vede nelle acque agitate. Ma ora è lui ad avere il vento in poppa. Naviga sereno in un mare calmo senza vento, pronto a salpare verso la sua nuova vita, sapendo che l’ancora lo terrà ben saldo, ora che ha saputo smettere di dire ancora.

io sono Oceano