GABRIELE D’ANNUNZIO
Cum lenitate asperitas.
Le difficoltà vanno trattate con dolcezza.

Storia

di

Elsa

E scricchiola ancora quel cassetto del comò Luigi XVI.
Il suo suono stridulo nell’aprirsi fa da sottofondo all’odore
di lavanda che proviene dai sacchetti cuciti all’uncinetto.
Si scorgono gli effetti dei tarli, ma sono di meno quelli sul legno, che nella testa.
La mente si estranea per un attimo e le immagini si impilano come soldatini al fronte; al fronte della memoria, pronti
a combattere contro l’eterno nemico di sempre, l’oblio.
È presto, molto presto questa mattina. Ma è un giorno speciale e come tutti i giorni speciali, si ha voglia di iniziarli. Le mani leggere come cartapesta stringono la camicetta di seta, ancora bella piegata e conservata nella sua busta trasparente.
Elsa decide che la indosserà per il suo ottantesimo compleanno. Ci pensa da giorni e si chiede se oggi, smagrita, riuscirà a riempire quel capo, gelosamente conservato negli anni, a cui è tanto affezionata.
La apre e l’adagia sul letto, e uno sguardo titubante l’accompagna. Gli occhi le cadono poi sui riccioli scuri di quei nipoti d’oltreoceano che d’estate e a Natale le riempiono
la casa di gioia; di quella gioia rumorosa, senza motivo né pretese che solo i bambini sanno portare.
Elsa accenna un sorriso e le sue labbra di un rosa cipria, marcate dalle rughe, si distendono subito, quasi borbottando. Le son caduti gli occhiali, e fa fatica a raggiungerli con le mani. Le braccia cadono lievi lungo gli spigolosi angoli della sua sedia amica, compagna di brevi ma tortuosi tragitti. Una voce flebile chiama; è lei che intona: Maria.
La voce tronca, un tono sommesso, ripetono: Maria. E in un attimo, Maria è già li.
Non servono parole, comprende immediatamente e recupera da terra le lenti, e poi si siede ai piedi del letto. Gli occhi di intesa proseguono e, continuando a non dire una parola, Elsa e Maria iniziano il loro consueto gioco di sguardi, espressioni che reciprocamente si incrociano complici.
È un giorno speciale. Oggi che è il suo compleanno Elsa riprova la voglia di iniziarlo presto questo giorno, generalmente scandito da altri ritmi, più affannosi, faticosi, fatti di quell’incedere lento di atti quotidiani che perdendo il loro perché si replicano, annichilendo il senso delle giornate, spesso vuote come i porta pillole alla sera.
È un giorno speciale oggi; ed Elsa lo sa.
Oggi non dovrà fare attenzione alla dieta, non dovrà passare dalla sua sedia amica-nemica, al letto e poi al divano. Oggi non dovrà subire il lento scoccar delle ore al suon di quell’orologio a cucù che sente ritmare il tempo, e che irrompe nel silenzio col suo suono improvviso.
Oggi non dovrà sentire il brontolio di Maria che le annuncia i pasti, le medicine da prendere, e che detta i tempi svizzeri di quelle prassi metodiche che archiviano i giorni uno dopo l’altro.
Oggi non dovrà lasciarsi trasportare dal tempo, ma sperimenterà un’emozione nuova: l’attesa. Quel vibrante intramezzo che ci riserva il cosiddetto frattempo; quell’intanto che arrivano gli ospiti; quell’intanto che si fa l’ora di pranzo; quell’intanto che la tavola sarà apparecchiata. È quella dimensione spazio-temporale dell’attesa che concede sollievo ad Elsa, pronta ad indossare la sua camicia di seta, sentendo che finalmente c’è un tempo che acquista senso, valore, spessore.
Pesa, si, pesa, e lei sente le spalle fragili; ma è felice; li avrà tutti lì, riuniti per lei, dai più grandi ai più piccini. Un’istantanea delle scelte fatte fino ad allora col suo amato Osvaldo che ora l’accompagna da lassù.
E il pensiero le vola a lui, ai sacrifici dei primi anni d’amore, a quel monolocale nei primi anni ‘50 che, man mano, che Osvaldo andava su e giù per l’Italia, e lei a casa ad attendere il suo rientro, si riempiva di nuovi oggetti. Il giradischi regalatole per l’anniversario le fa tornare in mente quella bizzarra abitudine che avevano; al rientro da ogni viaggio Osvaldo metteva su proprio quel disco. Le note sembrano vibrare ancora su di lei come una nuvola: tu sei per me la più bella del mondo, e un amore profondo
mi lega a te. Ad Elsa pare di sentirle ancora quelle parole, che canticchiavano sorridenti, come a voler testimoniare che dopo un altro viaggio, e un altro ancora lei e lui, erano sempre ancora lì, insieme.
I ricordi dei piccoli in cortile a giocare, che richiamava dalla finestra per la merenda; e poi, i primi giorni di scuola, finché loro decisero di spiccare il volo verso le loro vite.
Le lacrime nel salutarli ad ogni partenza e quelle ancor più fragorose nel ritrovarli ad ogni festività. I ricordi sono tanti, indelebili, a tratti sfocati, ma nel cuore vivi e vegeti.
Elsa lo sa. Oggi è un giorno speciale. Oggi, si aspetta. Oggi, si può aspettare; si può sperare. Si può ricordare. Si può vivere. Oggi, si può.
Come Mnemosine, personificazione della memoria, Elsa, è in prima linea nel combattere la sua battaglia contro l’oblio. I ricordi la scaldano, e come la titanide greca, le piace assegnare nomi e vezzeggiativi agli oggetti che la circondano.
E in un attimo, il suo beauty delle medicine diventa scrigno magico, l’ora della siringa, diventa il momento della lente marcia di ingresso di una principessa nel suo regno,
e dei suoi fedeli servitori a seguito, come Maria, instancabile dama di compagnia.
E con il potere della parola, diventa tutto fatato; in fondo la realtà è solo ciò che ci raccontiamo che sia; ed Elsa lo sa; è per questo che, infatti, continua a giocare con personaggi di corte e storie incantate.
Alle porte delle sue ottanta candeline, ci è arrivata così, immaginando mondi possibili e dissetandosi a volte, alla fonte di Mnemosine, per ricordare, e a volte, a quella di Lete, l’oblio, per dimenticare.
Una storia come tante quella di Elsa che riscrive la sua realtà, spingendosi a rinarrarla,
a raccontarsela perché ingoiarla sia meno faticoso.

io sono Mnemosine