KARIN BOYECerto che fa male, quando i boccioli si rompono, male a ciò che cresce, male a ciò che racchiude.

Storia

di

Sara

Le note di Brahms aleggiavano nell’aria ancora calda di fine estate.Le sue danze ungheresi, tra improvvise accelerazioni, alternate a motivi, a tratti spavaldi a tratti malinconici, spingevano su accentuazione ritmiche, dal lentissimo al velocissimo.
Era una delle tante sere all’Aperia della Reggia, e in quello scenario fiabesco quasi surreale, Sara nel suo tailleur blu avion, prestava servizio come hostess. Erano ormai un po’ di anni che era solita trovarsi un lavoro estivo per pagarsi le meritate vacanze.
Non ne aveva bisogno, ma le era sempre pesato chiedere. Chiedere soldi, come chiedere aiuto, conforto, perdono, o semplicemente un consiglio, le era pesato sempre e tanto. E ormai pareva che a pesare, nella sua vita, fosse solo chiedere, ora che, a pesare solo quarantadue chili era lei, leggera come una libellula, fragile come un guscio d’uovo fresco.Le sue amiche, più che amiche, colleghe di divisa, come soleva appellarle, terminato l’accompagnamento degli ospiti ai propri posti, si defilavano intente a scherzare, chattare, giocare al cellulare. Ma lei no, restava al suo posto vigile e assorta.Era come se il vorticoso ondulare delle braccia del direttore d’orchestra la rapisse, trasportandola in mondi fantastici che la stessa bacchetta pareva disegnare nell’area immobile. Rapita e trasportata Sara sapeva perdersi in quei gesti, in quelle melodie sinuose, vibranti, angosciose a volte, docili come carezze sul volto dei bambini, altre.È a perdersi però era stata lei, quando tre anni prima un’altra notte, l’ennesima, di quelle terribili e infinite, l’aveva portata l’indomani a recarsi al centro, pronta a farsi aiutare,o almeno credeva. Ormai tre lunghi anni erano trascorsi e Sara era davvero uno scricciolo, ma sembrava l’unica a non accorgersene. Ogni anno la divisa di hostess le veniva ordinata di una taglia in meno ma lei voleva di più.E venne il tempo anche quell’estate di partire.Un simpatico trullo con due amiche del gruppo di ballo, a cui si dedicava sin da piccola, era la destinazione di quella vacanza. Le ragazze avevano scelto una meta più defilata, ma solo per alloggiare. Il trullo, tra gli ulivi, nelle campagne salentine, era a pochi chilometri dalle spiagge più affollate e movimentate.Questo contrasto piaceva a Sara, come se si adattasse perfettamente al suo sentire. Come quelle danze ungheresi che giorni prima la rapivano e frastornavano.Aperitivi assordanti, mattine quiete, pomeriggi lenti, notti concitate; un’estate che trascorreva, giorno dopo giorno, come il Bolero di Ravel, lento, lentissimo, e poi sempre più veloce e roboante; stridulo, e poi pieno.Così come stridulo e poi pieno fu l’ultimo atto, e d’improvviso il buio, e Sara si svegliò, dopo il suo ennesimo ricovero, davanti gli occhi increduli e terrorizzati di mamma e papà.Ad ogni ricovero, era sempre più arrabbiata, aggressiva, quasi percepisse l’ingiustizia di quel blocco coatto, non comprendendone la necessità.Ma quella volta qualcosa cambiò. Ma a cambiare non fu lei, e di lì a poco si trovò in stanza con Vanessa. Lei pesava più di ottanta chili, e il solo vederla la nauseava.Non le rivolse la parola per settimane, fin quando Vanessa intenta a pettinare le sue Barbie, di cui aveva una collezione sterminata, non attirò l’attenzione di Sara.Fu un balzo indietro nel tempo.In un attimo si ricordò di quando, da piccola, passava interi pomeriggi insieme a loro, sola in casa, mentre mamma Claudia e papà Sergio erano a lavoro.Di lì divennero amiche.Sara imparò a non vedere più i chili di troppo che ingombravano Vanessa, così come riuscì a non veder quelli che le mancavano per considerarsi sana.Giorno dopo giorno, iniziava a sentirsi schiacciata dal suo peso inesistente, e una furtiva lacrima negli occhi suoi spuntò, con lo stesso lento crescendo della melodia che accompagna questi versi della celebre romanza di Donizetti.Un solo istante, i palpiti del suo cor’ sentì.E fu Vanessa a sentirli quei palpiti, e l’abbraccio, il primo tra le due siglò il loro sodalizio, tra i digiuni dell’una e le grandi abbuffate dell’altra.Entrambe fagocitate dalla malattia del nulla granitico, del vuoto impalpabile, del silenzio assordante, come vittime di un elisir d’amore, che lascia inermi, ciechi, immobili.Ed è proprio l’amore il nodo centrale che lega con un fil rouge le storie di Sara e Vanessa.Diverse, opposte, storie di genitori oppressivi l’una, storie di assenza per l’altra, ma forse semplicemente genitori, in una storia sbagliata dal destino nebuloso o solo sfortunato.Si l’amore. Quello ricevuto, perduto, dato, abortito, sbagliato, abusato che, nella sua forza energica e travolgente a volte straripa, andando oltre i perimetri di un cuore capace di sopportarlo. È alle emozioni che entrambe avevano detto basta, ibernandole nei lunghi digiuni, e nelle compulsive abbuffate, ognuna a suo modo.Ed è ognuna a suo modo che ne sarebbero venute fuori, che ne sarebbero uscite, ognuna sull’incedere delle proprie melodie, delle proprie rinunce, denunce, dei propri passi, gesti, dei propri sforzi. Uno dei doni più grandi che la Residenza le aveva lasciato, dopo quello di averla accolta, era certamente una maggiore consapevolezza, la prima di non presumere più di essere in salute o sentirsi attraente, guardando i numeri su una bilancia, l’ultima, che chiedere aiuto le aveva salvato la vita.Chiedere non spaventava più; era solo il verbo infinito che le ricordava quanto fosse importante esprimere il desiderio di avere o di ottenere qualche cosa, quanto fosse importante la volontà di riabbracciare la vita.
Ognuno aveva le sue ossessioni, fobie, paure e timori, alla residenza, e questo la faceva sentire meno sola. Il tempo al centro terapeutico passava, passavano le giornate e si facevano faticose, affannandola, spesso lasciandola per giorni apatica. Immobile a letto. Si muovevano nell’anima sentimenti contrastanti quando pensava alle conversazioni in gruppo al centro con i compagni e le compagne di ventura, anche di uomini ormai ce ne erano proprio tanti, e questo la lasciava perplessa, esterrefatta. Sara rimaneva conquistata da quanta umanità si potesse sentire nel respiro sospeso di chi, seduto in cerchio come gli indiani, iniziava le prime volte a raccontare frammenti di sé a perfetti sconosciuti, che sarebbero diventati per i mesi a venire, imperfetti amici di corridoio, nel respiro paziente di chi ormai veterano cominciava a parlare di sé, per dare uno sprono a quanti si trovavano seduti ignari e incapaci di dare voce ai loro vissuti e alle emozioni; il respiro concitato e voluttuoso di chi non agognava altro che vomitare emozioni e pensieri all’unico gruppo da cui non si sarebbe sentito giudicato. C’era Acidella, che rivelava di mangiare poco per poter influenzare gli altri, c’era Vanessa soprannominata nei corridoi Bubu per quell’andatura flemmatica e quei suoi foulard dai colori eccentrici, che mangiava in eccesso per cercare gratificazione e fronteggiare i suoi momenti difficili; c’era Pulce che raccontava di un’estenuante attività fisica, che la aiutava a perdere peso, e soprattutto le smorzava gli stati emotivi più intensi che sembravano inghiottirla. E c’era chi come lei mangiava meno per mantenere la sensazione di controllo. Le riunioni non erano una passeggiata; era sfibrante mettersi in gioco, ma il terapeuta, attraverso quel vigile ascolto delle sue preoccupazioni la sosteneva sempre molto e non la faceva sentire sola. Altri giorni, andava meglio, ma altri no. A volte Sara si sentiva ancora come all’inizio: rancorosa, irritabile, nervosa e indisponente; con quell’accidia che ti uccide, che anche alzarsi dal letto, diventa faticoso, un ostacolo insormontabile. Il freddo costante, la paura, l’apatia, il senso di colpa, il timore, il terrore. Le lacrime che uscivano pesanti, lente, ad una ad una come da un contagocce, staccandosi poi come ceralacca. Lente e disumane, lacrime che si annidavano come api, si moltiplicavano come pulci, si allargavano come zecche, cementandosi come stucco sui muri. Altri giorni andava meglio. Altri giorni va meglio. Irremovibile, come Temi, personificazione dell’ordine, della giustizia e del diritto, Sara sembra rappresentare appieno la titanide, con la sua ossessione per la legge, la sua fobia per l’ordine. Temi a cui nell’antichità si usava rivolgersi quando si doveva prestare un giuramento, spinge Sara a invocarla ogni mattina, quasi a prendere da lei la forza titanica per fare quel primo infinitesimale gesto: svegliarsi. Sara oggi si alza la mattina. Che ci sia la pioggia o il sole, che sia nuvoloso o ventilato, grandine o neve, Sara si alza. Che sia una bella giornata o una di quelle da dimenticare, finalmente Sara si alza. È sveglia, apre gli occhi e c’è. È viva, viva per davvero.

io sono Temi